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Uno studio dell’Istituto sull’inquinamento atmosferico e dell’Istituto di scienze del patrimonio culturale del Cnr mostra come la pandemia e climate change, apparentemente diversi, abbiano invece dinamiche simili. 

La ricerca, pubblicata su Global Sustainability, analizza le evoluzioni temporali e il rischio dei due fenomeni, permettendo di trarre dalla crisi attuale lezioni importanti per affrontare quelle ipotizzabili nel futuro.

 

Con la comparsa della pandemia causata da Covid-19 sembrava che ci fosse stato un momento di “pace” per quanto riguarda i cambiamenti climatici e l’inquinamento: le acque più pulite, meno emissioni di gas ecc.

Ma siamo sicuri che sia bastato questo periodo di fermo per risanare il pianeta?

Secondo uno studio fatto da Antonello Pasini e Fulvio Mazzocchi, ricercatori del Consiglio nazionale delle ricerche afferenti rispettivamente all’Istituto sull’ Inquinamento atmosferico (CNR-Lia) e all’Istituto di scienze del patrimonio culturale (CNR-Ispc), sono state analizzate le evoluzioni temporali della pandemia da Covid-19 e dei cambiamenti climatici, con notevoli differenze nei tempi di evoluzione dei due fenomeni (un aspetto che incide sulla percezione della loro relativa gravità).

Entrambi i fenomeni sono connotati da una certa inerzia, che porta a riscontrare i risultati delle nostre azioni di contrasto solo dopo un certo periodo di tempo; per la pandemia, l’inerzia è connessa al periodo di incubazione del virus mentre per il clima questo dipende dal lungo tempo di permanenza dell’anidride carbonica in atmosfera e al riscaldamento lento degli oceani.

Riportando un estratto del lavoro di ricerca:

 “Se oggi attuiamo un lockdown, vedremo i risultati tra 10-15 giorni; se adesso cominciamo a ridurre in maniera significativa e duratura le nostre emissioni di gas serra, i risultati li vedremo tra 20-30 anni.

 In entrambi i casi, quindi, è necessario agire in anticipo: abbiamo poi analizzato più a fondo un’equazione del rischio (prodotto di tre fattori: Pericolosità × Vulnerabilità × Esposizione), che descrive in maniera unitaria quelli per l’uomo che vengono dal Covid-19 e quelli che vengono dagli eventi estremi di carattere climatico”

 Per gli impatti dei cambiamenti climatici possiamo intervenire su tutti i fattori di rischio: sviluppare misure per contrastare il riscaldamento globale da cui dipende l’incremento di frequenza e intensità degli eventi più violenti, armonizzare la nostra presenza sul territorio, rendendolo meno vulnerabile, e ridurre la nostra esposizione con una maggiore cultura del rischio”. 

 

 

 

Al contempo, si può affermare che l’effetto “lockdown” abbia causato un’importante diminuzione di due tra i maggiori inquinanti atmosferici e, tuttavia, un effetto quasi nullo sull’aumento delle concentrazioni globali di CO2.

È il bilancio tratteggiato da tre diversi studi che hanno esaminato la qualità dell'aria che respiriamo: di fatto lo stop di trasporti e attività economiche ha avuto conseguenze limitate e di breve durata sull'inquinamento atmosferico, nulla di cui potremo beneficiare in futuro.

RIPORTANTO L’ARTICOLO DELLA RIVISTA FOCUS: 

“Lockdown e inquinamento: cosa è cambiato e cosa non è cambiato”.

Le ricerche sono state condotte dagli scienziati dell'American Geophysical Union e pubblicate sulla rivista Geophysical Research Letters

Il primo lavoro ha sfruttato rilevazioni satellitari per stimare le variazioni di diossido di azoto (NO2, un gas altamente reattivo e irritante per i polmoni, prodotto durante i processi di combustione) in alcune delle aree più colpite dalla COVID-19: Cina, Corea del Sud, Italia, Spagna, Germania, Iran e Stati Uniti. 

Nei mesi del lockdown, i livelli di NO2 sono calati in media del 40% sulle città cinesi e dal 20 al 38% in Europa Occidentale e USA, rispetto allo stesso periodo nel 2019. 

La diminuzione è stata confermata anche dal secondo studio, basato sulle misurazioni di 800 stazioni di monitoraggio della qualità dell'aria della Cina settentrionale; l'analisi ha anche trovato che nell'aria, l'inquinamento da particolato atmosferico 2.5 (PM2.5) era sceso del 35%.

 Simili riduzioni non si vedevano dall'inizio delle rilevazioni satellitari dei gas inquinanti, nei primi anni '90 (se si esclude una breve parentesi a cavallo delle Olimpiadi di Pechino del 2008, durante la quale l'aria fu drasticamente ripulita per evitare brutte figure internazionali).

 Per quanto incoraggianti, tuttavia, questi cambiamenti sono provvisori e controbilanciati da alcune cattive notizie: la prima è che, con meno diossido d'azoto nell'aria è tornato a crescere l'ozono superficiale, un inquinante secondario che si forma vicino alla superficie come prodotto di reazioni chimiche in atmosfera, che si svolgono in presenza di luce solare (smog fotochimico).

La seconda nota stonata arriva dagli ultimi dati dell'Osservatorio di Mauna Loa (Hawaii) e riguarda le concentrazioni globali di CO2: nel mese di aprile 2020 sono state di 416,21 parti per milione (ppm), il valore più alto dall'inizio delle misurazioni nel 1958. 

Nel 2019 erano 415,26 ppm: nonostante i lockdown, abbiamo incamerato un nuovo record negativo, con quantità globali di anidride carbonica mai registrate negli ultimi 800.000 anni, come confermano i livelli di CO2 nelle carote di ghiaccio.

L'anidride carbonica ha una vita media di un secolo: una volta immessa nell'aria, se non viene assorbita rimane a lungo in atmosfera prima di dissiparsi. 

Secondo l'UNEP (il Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente) i due terzi di quella globale provengono ancora da combustibili fossili.


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